Abbiamo bisogno di libertà e, contemporaneamente di sicurezza. Nella realtà quotidiana, tendiamo a sacrificare la libertà per la sicurezza o, se abbandoniamo la sicurezza, rischiamo una libertà precaria. Questa tensione ci porta a cercare una soluzione nella comunità. La comunità è luogo dove trovare libertà e sicurezza? Dopo quasi un anno di vita in una comunità intenzionale, mi accorgo che sposto l’attenzione dalle pressioni della società ad una consapevolezza individuale. Per farlo, imparo…un movimento.
Comunità non è tanto vivere insieme ma il motivo per cui lo si fa
Diana Christian Leafe
Cosa significa "fare comunità" oggi?
Perché siamo attirati dalla parola “comunità”? Mi piace questa parola, l’associo allo “stare insieme” e a una sensazione di calore e benessere. Bauman in “Voglia di comunità” sembra leggere nella mia mente. Secondo lui il bisogno di comunità deriva da quell’insieme di tensioni in cui si trova sia la sensazione gratificante di libertà nello scegliere chi essere e cosa fare, sia la sensazione di angoscia della mancanza di tutele che viene dalla società, (talvolta) più grande e individualista, dove te la devi cavare in una competizione solitaria.
Abbiamo bisogno di libertà e, contemporaneamente di sicurezza. Nella realtà tendiamo a sacrificare la libertà per la sicurezza o, se abbandoniamo la sicurezza, rischiamo una libertà precaria.
E allora, alla fine, che cosa stiamo cercando? Il senso di appartenenza. Perché? Perché forse sentendoci appartenere a qualcuno e a qualcosa di condiviso possiamo essere chi siamo, esprimere i nostri talenti, sentirci accolti e accogliere l’altro, essere liberi e sentirci sicuri insieme agli altri. Forse una delle massime aspirazioni umane.
Quindi...comunità?
Sappiamo fare comunità? Quando mi capita di trovare il bucato ritirato prima della pioggia da qualche mano previdente, non ho alcun dubbio. La risposta è “si”. Quando, al termine di una lunga riunione, esco con i neuroni atrofizzati e con la domanda “ma alla fine cosa abbiamo deciso?”, riesco a mettere in dubbio anche il concetto di “riunione”.
“Fare comunità” è una capacità innata dell’uomo? Oggi direi di no. E’ innata la socievolezza (si, è vero: ci sono delle splendide eccezioni di “orso sapiens”) ma fare comunità, esserne parte, contribuire al suo significato è un processo costante, a volte armonioso e a volte no, a volte fluido e a volte decisamente contraddittorio e, soprattutto mai statico.
Non è nemmeno identico, la comunità cambia con le persone. Nuovi discorsi aprono nuove possibilità, punti di vista, negoziazioni che oggi funzionano ma che domani possono essere archiviati.
Nei momenti sereni tutto è bellissimo e accogliente. Poi arrivano i dubbi, le fatiche e le ansie che aprono la strada all’insofferenza, alla rigidità, al distacco. Oggi l’altro può essere uno specchio illuminante, una chiave di interpretazione preziosa e domani un enigma ermetico. Non è più chiaro se quelli riflessi sono i miei o i tuoi difetti, i miei o i tuoi limiti, la mia o la tua incomprensione. L’altro, io, noi…è uguale!
Nulla è permanente tranne il fatto che questo è “fare comunità” o, meglio ancora è “fare relazione”, ogni giorno.
Allora no!
Se è faticoso nella coppia, nella comunità la parola “faticoso” è troppo semplice. E’ destabilizzante. Ma come? La comunità non era la ricerca della sicurezza e della libertà nella sicurezza?
Si.
Allora non funziona.
Dipende…bisogna capire cosa si sta cercando o chi si sta cercando…
Vivere con gli altri si impara. Stare con gli altri è costante apprendimento, starci sufficientemente bene è arte.
La relazione con l’altro fa emergere vissuti antichi, spesso non affrontati. Credo che la prima reazione davanti a ciò che sfugge dal controllo (un po’ più semplice da mantenere nel “tradizionale” mondo, diviso in casa, lavoro, hobby, amicizie) è quello di paura, dolore e chiusura. Un altro è quello di sconforto: “Oh mio Dio, sono un mostro!”. E’ il primo vero ostacolo che ogni comunità, nella quotidianità, offre a chi vi entra. La tentazione di uscire dal gruppo, entrare in conflitto o in depressione, o entrambi a seconda del momento, è grande.
Ma è grande anche l’opportunità. Direi unica. Se si accetta di essere destabilizzati, si entra nella critica e nel giudizio, che tendenzialmente è un momento di crescita, di maturità. Tuttavia…è presto cantare vittoria! Il nuovo ostacolo è più subdolo del primo. L’iper criticismo in risposta al giudizio sociale. Verso di sé, verso l’altro, verso di sé e verso l’altro a seconda del momento, della sensazione, della percezione, anche della luna, ogni tanto.
Mettersi in dubbio, riconoscere di non sapere, è davvero una grande conquista. Diventa una trappola se non ci si muove da lì.
Appartenenza
L’essere umano cerca il gruppo. Prima ancora la famiglia. E’ un profondo bisogno e, insieme, una grande fragilità umana e sarebbe bello se fosse accolta con tenerezza e accoglienza. Utopia! Un po’ come si dice delle comunità, luoghi in cui si cerca di realizzare il sogno di vivere insieme, in armonia, al calduccio.
Infranto. Alla prima, gelida, incomprensione.
Ma quanto è alta la nostra aspettativa? Penso sia direttamente proporzionale al bisogno di appartenenza.
E allora ritiriamoci? Smettiamola di provarci? No. Spostiamo il tiro. Nè alto, né basso ma nel centro. Dritti, in noi stessi.
La grande opportunità della comunità è imparare a fare un movimento. Da sé verso l’altro, dall’altro a sé e così via. Oscillare ma senza cadere o spezzarsi. Si appartiene, prima di tutto, a se stessi.
Come riuscirci? C’è una massima greca che mi aiuta: “Conosci te stesso e conoscerai l’universo”. Mi fa sentire parecchio ignorante ma anche molto curiosa.
E’ difficile vedersi e conoscersi senza l’altro, abbiamo bisogno dell’altro ma l’altro non è uno specchio limpido, anche perché, anche per l’altro, è difficile vedersi e conoscersi.
Che senso ha lasciarsi destabilizzare fino a perdere la certezza di noi stessi?
Appartenere a qualcuno e qualcosa rimanendo centrati in sé, sembra quasi contraddittorio. Eppure esiste una strada migliore per avere libertà (essere se stessi) e insieme sicurezza (accettare la destabilizzazione delle relazioni)?
Conoscere se stessi è, quindi, il motivo per una sfida tanto complessa? Penso di no. Penso sia solo l’inizio. Ma è un po’ come essere accordati, avere la consapevolezza della propria nota che “suona” insieme alle altre.