Che cos’è il Lavoro Emotivo Corporeo? Quali connessioni ci sono tra emozioni e corpo? Alcuni anni fa Stefano Vanzetto ha iniziato a partecipare ai gruppi di “Percorso Triennale di Approfondimento” del LEC (Lavoro Emotivo Corporeo) accompagnato da Willi Maurer e cooanimatori. Successivamente, spinto dai benefici che il LEC ha portato nella sua vita, Stefano, ha iniziato ad accompagnare altre persone nello stesso percorso verso una maggiore consapevolezza di sé.
Quando hai cominciato ad accompagnare altre persone in questo percorso di consapevolezza? “E’ stato talmente efficace il mio percorso che ho sentito il desiderio di mettermi a disposizione per accompagnare altri ma ancora oggi non so veramente se questo sarà il mio modo di accompagnare qualcuno in un percorso di consapevolezza”.
La chiacchierata con Stefano inizia e prosegue così. Una chiacchierata lunga diversi mesi, intervallata dalla lettura dei testi di Willi Maurer: “La prima ferita. L’influenza dell’imprinting sul nostro comportamento umano” e “Il senso di appartenenza. Alla ricerca delle proprie radici. Un viaggio essenziale per una vita più intensa e consapevole”.
Stefano, a sua volta accompagnato da Willi Maurer e cooanimatori, già sette anni fa ha iniziato a partecipare ai gruppi di “Percorso Triennale di Approfondimento” e, successivamente, ad accompagnare altre persone (per il momento coadiuvato da un supervisore) nel Lavoro Emotivo Corporeo. Il LEC è un metodo elaborato da Willi, in quaranta anni di percorso di crescita personale e professionale, che permette di riprendere contatto con gli aspetti rimossi della propria esistenza, di elaborarli ed integrarli nel presente.
Le persone che hanno fatto questo percorso e che oggi si propongono come accompagnatori nel percorso di altre persone, hanno già avuto modo di affrontare le proprie ferite, i propri sentimenti repressi, ricordi dolorosi rimossi. Sono diventati consapevoli che la relazione con l’altro è risonanza di sé e di “noi”. Scappare dal disagio della relazione è possibile finché non si tocca il fondo, allora affiora la consapevolezza che certe dinamiche si ripetono, portando rinnovata sofferenza. Sappiamo perché ci allontaniamo, vogliamo evitare la sofferenza. Ma perché questa sofferenza si ripete? Non lo sappiamo o meglio, non lo ricordiamo più.
Ne “La prima ferita. L’influenza dell’imprinting sul nostro comportamento umano” Willi Maurer affronta in dettaglio le esperienze del periodo primale, ovvero dal concepimento fino ai due anni di vita, ponendo l’enfasi sul tema dell’ imprinting che avviene nelle primissime ore dopo il parto. In questa fase fondamentale egli riconosce nel bisogno del
neonato, la prima richiesta di relazione, spesso negata da madri e padri a loro volta vittime dello stesso abbandono.
La prima ferita rimane dunque inespressa, con l’urgenza e il desiderio di un neonato, anche quando, per sopravvivere, abbiamo imparato ad ignorarla.
Alla luce delle mie esperienze, posso affermare che la nascita è proprio il prototipo di questi momenti di grande intensità emozionale che permettono di “ sciogliere “ e riprogrammare la matrice celebrale. Il periodo straordinariamente sensibile della nascita e dell’immediato dopo-parto influenza massicciamente tutta l’esistenza.
Willi Maurer
Accompagnare una persona nel suo percorso di ritorno alle proprie ferite più profonde, significa essere consapevole della forza emotiva altrui, una forza che può essere espressa solo in un luogo protetto. Significa soprattutto aver già intrapreso un percorso che ha permesso di far uscire queste forze, aver sentito la profondità delle proprie ferite permette all’ accompagnatore di non venire travolto dall’emotività della persona che sta vivendo la propria regressione.
“Nell’ accompagnamento la persona trova un aggancio dalla realtà , regredendo nel ricordo di tempi più antichi attraverso il “ sentire” del corpo. Quando faccio un viaggio così profondo attorno alla nascita, entro in un luogo in cui non c’era ancora la mente egotica, pensante, discriminante…Al contrario, torno allo stadio di neonato, di dipendenza”.
Non solo, quello che il neonato esprime nel pianto, è il profondissimo bisogno di appartenenza che, se negato, ha ripercussioni sulla vita futura, quando il bambino e la bambina diventati grandi lo cercheranno disperatamente nel partner, con il rischio di una nuova, dolorosa negazione. Ciò a cui Willi Maurer nel suo libro “Il senso di appartenenza. Alla ricerca delle proprie radici. Un viaggio essenziale per una vita più intensa e consapevole”, dà un nome specifico: la sindrome di GioLa.
In generale, secondo la mia esperienza, posso affermare che chi ha subito trattamenti dolorosi durante la prima infanzia e non li ha rielaborati e integrati, è attratto da situazioni che gli permettono di riproporre sugli altri quello che ha subito e tende, tra l’altro, a scegliere una professione che gli permetta questa posizione di potere.
Willi Maurer
L’accompagnatore crea un ambiente protetto dove la persona ha la possibilità di vivere, nel qui e ora, tutto quello che si sarebbe dovuto vivere ma non è stato possibile o quello che si è vissuto allora ma che non si avrebbe voluto vivere.
Si tratta di tutte quelle emozioni profonde e distruttive che un bambino piccolo non può gestire, ma che si porta inconsapevolmente dentro di sé nel corso della vita e che influiscono nei rapporti con gli altri, senza che la persona riesca a riconoscerne la causa.
“La liberazione delle emozioni, accompagnata in un ambiente protetto, è allora una presa di coscienza che permette di liberare sentimenti repressi”.
Come viene accompagnata una persona in questo processo di consapevolezza? “La chiave risiede nel mettersi in contatto con le sensazioni, anche più sottili, del proprio corpo”. Le emozioni si possono percepire in alcune zone corporee. Ponendo l’attenzione su blocchi e tensioni fisiche di oggi, la domanda con cui iniziare il percorso accompagnato è, per esempio: “A quando risale il primo ricordo legato a questa tensione?” La concentrazione sulle sensazioni corporee permette di affrontare quelle emotive, esprimerle nella loro forza dolorosa e depotenziarle nella loro distruttività. L’ambiente protetto e amorevole, creato da chi ha già intrapreso questo lavoro emotivo e corporeo, sostiene la persona nel viaggio di ri-conoscenza di sé. L’accompagnatore rimane presente davanti ai sentimenti difficili. “Già all’inizio del percorso mi viene suggerito di non controllarmi e di esprimermi come lo farebbe un bambino piccolo, posso cosi aver fiducia nel processo e lasciar parlare il corpo”.
Infine è necessaria una riflessione o ricapitolazione per ri-collegarsi nel presente da persona adulta, che ha saputo accogliere il suo bambino interiore ferito e prendersene cura, senza giudizio ma con l’amore incondizionato di un genitore, finalmente pronto alla relazione che genera benessere.
Tutto ciò “Non succede in una seduta e la ricaduta – nelle vecchie abitudini e credenze – è sempre possibile. La ferita rimane. La consapevolezza è tanto in questa accettazione quanto nel riconoscimento delle risorse che ho trovato in me per affrontare le mie ferite. Divento cosi consapevole e, in quanto consapevole, agisco da adulto a quella ferita…e,
magari, posso anche abbandonarmi al pianto rigenerante”.
La figura dell’accompagnatore è particolare in questo processo. E’ presente ma non per guidare. Ascolta ma senza passività. Al contrario, si pone in relazione anche negandosi oppure accogliendo una reazione emotiva, anche violenta, come se fosse il diretto destinatario di rabbia, odio, vendetta.
“Ci sono lavori in cui l’accompagnatore è presente in modo diverso, per esempio in quei lavori fatti nello stato alterato di coscienza, attraverso l’utilizzo di sostanze esterne o attraverso il respiro e la musica evocativa” (Stefano partecipa a gruppi di Respirazione Olotropica con la Dott.sa Claudia Panico dal 2013 https://respirazioneolotropicaitalia.it “Lo stato alterato permette al corpo di rivivere i diversi stadi Perinatali, ovvero le Matrici Perinatali di Base, in questo stato di coscienza alterata, è possibile entrare in contatto con il mondo interiore attraverso respirazione, musiche evocative in un ambiente protetto”.
Perché viene data tanta importanza alle emozioni? “L’emozione è dotata di una propria energia, posso lasciata fluire o mantenerla dentro di me…Mantenere l’energia in sé, è come chiuderla nel corpo, come in una scatola. Se non riesco a liberata crea malessere. Ma se riesco ad accoglierla e a liberarla mi libero anche, potenzialmente, dal male fisico”.
Non tutti e, forse, non sempre, possono accompagnare altre persone in questa ricerca di consapevolezza. “E’ importante che io mi senta “pulito” nel momento in cui accetto la richiesta di una persona ad essere accompagnata. E’ la persona stessa che è respons-abile nelle sue richieste. Non si porta nessuno dove non vuole andare. Tutto quello che posso fare è rimanere presente a chi decide di entrare nel percorso e stare con quello che c’è…Sono lì ma non ti guido. Perché è la persona che deve fare il suo percorso e ognuno ha un percorso diverso dagli altri”.
Stefano mi avvisa, il lavoro incomincia già nella richiesta di base, se non viene espressa chiaramente una volontà da parte della persona, non può essere fatto il percorso. L’accompagnatore può non reagire ad una richiesta. Questa deve essere formulata chiaramente…“Non basta un semplice “Hai voglia di accompagnarmi?” perché già in questa domanda è sottinteso il non prendersi la propria responsabilità!” Il LEC, invece, è un lavoro in autoresponsabilità, in cui si impara ad accettare anche un “No. Non ti accompagno”.
“Fa male un “no”, arriva dritto dall’infanzia, dalla relazione negata con chi ho amato di più. Rischiare che l’altro non sia disponibile è l’incertezza della relazione. Ed è anche l’autenticità della relazione, è stare nella vita, accettando la non sicurezza del certo. Significa imparare a stare in contatto con i propri bisogni, formularli in domande che non tolgano la propria responsabilità ma la assecondano prendendomi tutto il rischio di non trovare accoglienza. Quando, però, questo accade, scopro che l’altro è disponibile…questa è una gioia enorme! Vale la pena quella paura, vale la pena vivere l’incontro con il proprio dolore ,quel dolore che ho sempre cercato di evitare…Ma evitare il dolore è eliminare tutto…è come “buttare via l’acqua con il bambino dentro”.
Allora, trovare la forza di liberare queste emozioni permette di rientrare nelle emozioni senza esserne travolti, diventare adulti, responsabili di se stessi.
L’ultima domanda, apre nuovamente una chiacchierata, che, in definitiva è lunga una vita! “Si guarisce dalla “Prima ferita”? Stefano mi ricorda che la risposta non è definitiva e che non è questione di “ guarire “! Mi ricorda anche che poniamo l’attenzione nel posto sbagliato, dove crediamo sia il nostro bene. Non possiamo avere certezza di alcuna
guarigione ma durante il percorso abbiamo la possibilità di raggiungere consapevolezza sulle strategie che abbiamo imparato ad usare per allontanarci dalle relazioni, e, finalmente riuscire a “stare con quello che c’è al momento vivendo con pienezza nel Qui e Ora”.