Che significa abitare in una comunità di ecovillaggio? E, prima ancora, com’è abitare un luogo dalla storia antica? Come la sua forma, gli spazi pubblici e privati, le chiusure e le aperture influiscono e sono influenzati da chi li abita? Tra disorientamento, decostruzione, incontri di identità diverse, inizia un percorso di nuovo orientamento, ri-costruzione e crescita.

Il modo in cui tu sei ed io sono, il modo in cui noi uomini siamo sulla terra è l’abitare. Essere uomo (e donna) significa essere sulla terra come mortale e cioè: abitare.

Entrare nel borgo

“Abbandonato nel corso del XX secolo, l’antico villaggio medievale nella frazione di Torri Superiore si era completamente spopolato. Agli inizi degli anni ‘90 l’Associazione Culturale Torri Superiore iniziò le trattative per l’acquisto delle case attraverso un faticoso e lungo lavoro di ricerca (si erano perse le tracce dei proprietari di molti dei circa 160 vani parcellizzati nel corso del tempo) e di trattative per il passaggio di proprietà. Seguì, quindi, un dettagliato studio della struttura degli edifici e l’elaborazione di un complesso progetto di restauro …”

Quattro anni fa, circa, avevo iniziato così, raccogliendo dati e facendo interviste ai “membri dell’ecovillaggio” per ricostruirne la storia, mentre camminavo a naso in su per i vicoli dell’antico borgo di pietra. Ammiravo il frutto di un lunghissimo restauro, circa 20 anni di cantiere, chiedendomi quanta connessione ci fosse tra ri-costruire un borgo nato come un’antica comunità di donne e uomini che qui nascevano, vivevano e lavoravano e nuove donne e uomini che qui tornavano a rianimare le pietre costruendovi anche il loro destino e…una nuova comunità.

Disorientamento

Bisogna esserci per capirlo! Il borgo di pietra di Torri Superiore è stato definito in tanti modi: agglomerato di case, intrico di stradine… “labirinto”. E, in effetti, con i sali e scendi dei vicoli interni, le scale e gli scalini, i ponti che collegano sale e sale collegate ad abitazioni, porte davanti, sul retro, al piano di sopra e a quello di sotto, giardini, corridoi nascosti e terrazze, sembra di muoversi in una stampa di Escher.

Eppure questo continuo movimento ha qualcosa di naturalmente umano da farti capire che anche il perdersi è abitare. Forse perché ricorda l’atto umano di addomesticare, rendere familiare, specie quando rifai la stessa strada due volte o uscendo da un retro ti ritrovi su un davanti. Quando uno spazio pubblico si inserisce in un luogo privato ed intimo…confusione, meraviglia, conquista, sempre temporanea. Entrare, tornare sui propri passi, provare un nuovo sentiero. Perdersi.

Perdersi è forse proprio questo: il soggetto si trova spiazzato tra una aspettativa di familiarità con un luogo, di “adesione affettiva o di comprensione” con esso e un “comando contrario” che lo stesso luogo gli dà.

Imparare i nomi

Già, perché succede proprio questo: il luogo risponde, si fa percorrere e si nasconde. Si apre e si ritrae. Come per ogni relazione, vuole il suo tempo. Lento.

Ancora oggi, dopo diversi mesi di vita nell’ecovillaggio, ogni tanto confondo qualche ingresso, non ho ancora associato tutte le finestre a tutte le abitazioni ma conosco qualche scorciatoia…

E’ soprattutto quando ripeto i nomi che ho imparato, i nomi di persone che ho sbirciato nelle foto in bianco e nero, foto di ragazzi e ragazze in jeans e maglietta (gli inconfondibili anni ’90 e “oh! ma questo sei tu!!”) i nomi di giardini e di case, che tutto questo prende il sapore del familiare.

Una volta mi è stata fatta questa domanda “Com’è vivere in una comunità che vive insieme già da così tanto tempo?” Non sapevo bene cosa rispondere. Anche perché questa comunità non solo abita insieme ma ha costruito insieme il suo abitare. Poi una sera, mentre parlavo con “i membri della comunità”, di questa mia esperienza in divenire, ho avuto un’intuizione.

Provate a prendere un libro, un libro che intreccia le storie di moltissimi personaggi, alcuni sono andati via, altri sono rimasti, altri tornano. Pensate che alla pagina 347 entrate voi e la vostra storia. Come si entra tra sentieri già tracciati, case già costruite? Discorsi già iniziati, inserendo il proprio, né troppo, né poco?

Abitare se stessi

Questo borgo ha qualcosa di speciale perché già nella struttura architettonica è stato pensato per la vita interconnessa di una comunità e, sempre la sua forma, è fatta di mura alte e difensive. Cosa difendeva? La sua comunità.

Che cosa spaventa una comunità antica? Ciò che è nuovo e può portare disordine. Ciò che non riesce a sentirne il carattere, il ritmo, l’armonia e la disarmonia. E a farla sua.

Come una casa

Sono come una casa. Sono fatta di muri, pareti colorate, alcuni colori sono vivi e vibranti, altri ombrosi. Sono anche mobili, pensieri che mi piace spolverare. Sono piena di cianfrusaglie, cassetti di progetti e ricordi.

Spostare la mia casa e trovare un posto tra altre case è trovare un modo per essere nel borgo, indipendente e connessa allo stesso tempo. Ci sono nuovi gradini da collegare, porte da aprire, finestre che si affacciano su nuove viste. Che si fa? Spazio, apertura, collegamenti!

Inizio a togliere quello che non serve più, non sono più io. Comincia il travaglio. Mi aggiro per una casa che, in fondo in fondo, non ho mai osservato bene…da quanto tempo tengo lì quel vaso? E che contiene? Ancora più importante: so distinguere un muro portante da una parete divisoria? Cosa, se buttato giù, farà crollare tutto e cosa mi darà una prospettiva migliore?

Le macerie sollevano polvere antica. Nelle macerie mi sono sentita persa, disorientata.

Lì mi sono seduta, aspettando che la polvere si posasse nuovamente. Non avere fretta, né di distruggere, né di ricostruire. Nelle macerie c’è un passato con cui fare pace e, insieme, un potenziale di creatività. Posso utilizzare nuovo materiale. Posso capire se funziona.

E se non funziona? Immagino che a quel punto avrò imparato a distinguere un muro portante da una parete divisoria.

Avrò imparato ad abitare. Avrò imparato che tutti lo facciamo allo stesso modo. Non “cosa”, allora, ma “come” mi aiuta a stare con gli altri.

E mi aiuta comprendere che le paure sono le stesse, antiche e nuove. Aprirsi o chiudersi, aprirsi e chiudersi.

L’essere umano non può agire diversamente che colonizzando l’ambiente in cui vive per la sua stessa sopravvivenza. E’ però il modo in cui sceglie di relazionarsi con l’ambiente nel quale si insedia che fa di lui un uomo (e una donna…ancora!)”.

“Abitare diventa, allora, la capacità di costruire relazioni durature, portatrici di senso…”

Che cosa dura nel tempo? Come vivere nelle relazioni?

Non possiamo fare altro che provarci, abitare, stare con gli altri, tra orientamento e disorientamento, tra costruzione e decostruzione e ancora ricostruzione, difesa di identità, costruzione di una nuova identità.

Terra e pietre. Parole e silenzi. E’ più che mettersi in gioco, è abitare, stare nell’agire.

Le relazioni ci costruiscono e rimangono con noi, abitano la nostra casa.

Solo tu, amico mio, sei statico, discreto spettatore. Ci guardi vivere, fermarci, partire. Ti costruiamo, ti abbandoniamo, ti recuperiamo, più bello di prima…come facciamo con noi stessi. Ma quante risate e lacrime porti nella tua storia centenaria, mio caro, caro borgo? Ti regalo anche le mie.

Questo cumulo di macerie oggi è la sala degli incontri, dei corsi, delle feste...

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